La concorrenza sleale per denigrazione e appropriazione di pregi

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La concorrenza sleale per denigrazione e appropriazione di pregi

La concorrenza sleale per denigrazione e appropriazione di pregi

Nell’ultimo articolo (clicca qui per leggerlo) è stato analizzato il primo gruppo delle fattispecie “nominate“, in cui un’impresa adotta o imita servilmente nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri, oppure compie qualsiasi atto idoneo a creare confusione con essi (fattispecie “confusorie”).

In questo, invece, parleremo del secondo gruppo delle fattispecie “nominate”, a sua volta diviso in due sottogruppi: le fattispecie relative all’appropriazione dei pregi dei prodotti/servizi della concorrente e quelle in cui lo scopo è la denigrazione degli stessi.

Entrambe sono disciplinate dall’art. 2598, n°2) del codice civile, ma non presentano punti in comune e, quindi, saranno analizzate separatamente.

1) La denigrazione dei prodotti o dell’attività di un concorrente

Partendo dalle seconde, l’art. 2598 c.c. definisce denigratorio qualsiasi atto caratterizzato dalla diffusione di “notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”, cioè la perdita o la diminuzione della reputazione e della fiducia di cui l’impresa concorrente gode sul mercato.

La giurisprudenza e la dottrina, tuttavia, nel delineare i “contorni” della fattispecie “denigratoria”, hanno chiarito che:  

  1. la diffusione di notizie e apprezzamenti, per determinare il discredito, deve avvenire nei confronti di “un numero indeterminato … di soggetti … o quanto meno … ad un pubblico indifferenziato” (Cass. civ., 30.05.2007, n. 12681).
  2. Le notizie o gli apprezzamenti screditanti devono essere falsi: non sono illeciti, se veritieri, purché essi siano esposti in modo obiettivo e supportati da riscontri “scientifici”.

Le fattispecie denigratorie

Non potendo descrivere in questa sede tutte le fattispecie denigratorie, ne citiamo solamente due:

  1. la comparazione coi prodotti o i servizi di un’altra impresa (es.: quando vengono utilizzate espressioni come “il mio prodotto è migliore del suo” o “il suo prodotto è peggiore del mio”);
  2. la magnificazione del proprio prodotto, cioè la definizione di esso come il migliore di tutti.

In merito alla prima fattispecie, il D.Lgs. n°145/2007 ha considerato lecita la pubblicità comparativa solo se:

  1. non risulta ingannevole in relazione al confronto coi prodotti della concorrente;
  2. non ingenera confusione;
  3. non discredita il concorrente;
  4. non procura all’autore della pubblicità un indebito vantaggio, grazie alla notorietà del segno distintivo del concorrente.

Anche relativamente alla seconda fattispecie la giurisprudenza è generalmente indulgente: la magnificazione del proprio prodotto è considerata una condotta lecita, purché sia talmente “esagerata” da non poter essere presa alla lettera dai destinatari del messaggio, anche se denigra “implicitamente” i prodotti altrui.

La pubblicità della Plasmon: “Qual è la differenza?”

2) L’appropriazione di pregi

La seconda fattispecie disciplinata dall’art. 2598, n°2) c.c. riguarda, invece, l’appropriazionedi pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”.

I pregi, secondo l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, riguardano le qualità dell’impresa “vittima” della condotta illecita, o dei suoi prodotti, che vengono apprezzate e preferite dai consumatori. Mentre la condotta appropriativa potrà configurarsi quando l’impresa comunichi al mercato che essa o i propri prodotti presentino i pregi propri dell’impresa concorrente (o dei prodotti di quest’ultima).

L’agganciamento alla notorietà altrui

Un caso tipico della suindicata fattispecie è rappresentato dall’“agganciamento” alla notorietà di una concorrente. Ciò avviene quando un’impresa si propone al mercato equiparando se stessa o i propri prodotti ad una concorrente nota o ai suoi prodotti.

In questo modo, sfruttando la notorietà della concorrente dei prodotti di quest’ultima – acquisita con considerevole investimento di tempo e denaro – l’impresa conquista un significativo vantaggio sul mercato, senza tuttavia compiere alcuno “sforzo”.

L’ipotesi più comune di agganciamento è l’impiego del proprio marchio sui propri prodotti, accanto a quello dell’impresa nota, preceduto dalla parola “tipo” o “simili” (ad esempio: la mia penna è “tipo Mont Blanc”). In questo caso, non ha importanza che il proprio prodotto sia qualitativamente inferiore o superiore al quello dell’impresa nota: la condotta illecita si configurerà solo per il fatto di aver sfruttato la rinomanza di quest’ultima.

Si avrà appropriazione di pregi anche quando il prodotto dell’impresa presenti una forma analoga a quella adottata dal prodotto di un’impresa nota, ma aggiungendo una denominazione diversa (si pensi alla forma tipica della boccetta della colonia “Acqua di Parma”, a cui viene applicata la denominazione “Acqua di …”).

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