Il marchio patronimico

In un precedente articolo (clicca qui per leggerlo), abbiamo parlato dell’importanza del marchio, della sua funzione principale – cioè identificare e valorizzare i prodotti / servizi dell’impresa, distinguendoli da quelli dei concorrenti e difendendoli dai contraffattori – e della sua capacità distintiva, necessaria anche per comprendere la differenza tra un marchio forte e uno debole.
Tra le varie tipologie di marchio vi è quello patronimico – composto dal nome e cognome (o solo da uno dei due) del titolare – che, pur possedendo una forte capacità distintiva (in quanto non presenta collegamenti coi prodotti/servizi dell’impresa), presenta comunque il rischio di confondibilità con altri nomi.
La differenza tra marchio forte e debole
Infatti – lo ricordiamo – è considerato “forte” quel marchio caratterizzato da un segno (parola, disegno, lettera, cifra, suono, tonalità cromatica), o da una combinazione di essi, concettualmente estranei ai prodotti o ai servizi offerti dall’impresa.
Queste caratteristiche riconoscono al marchio una maggiore tutela nei confronti di coloro che utilizzino marchi simili per prodotti o servizi identici.
La differenza tra un marchio forte ed uno debole, dunque, non rileva ai fini della registrabilità o meno degli stessi, bensì del livello d’intensità di tutela riconosciuto all’uno, piuttosto che all’altro.
Il marchio patronimico può essere considerato forte, per i motivi illustrati di seguito.
La conflittualità con un altro patronimico
Secondo una recente sentenza del Tribunale di Napoli, “il patronimico rappresenta il cuore del marchio ed attribuisce al segno un carattere distintivo ed individualizzante” (Trib. di Napoli, 30.05.2024).
Per questo, può sorgere una potenziale conflittualità non solo tra un marchio patronimico e un altro marchio (es: figurativo), ma altresì tra il primo e il nome (o cognome) di un altro imprenditore, identico al primo, che venga utilizzato ai fini commerciali.
In questo caso, quale dei due viene tutelato maggiormente dalla legge?
La differenza tra il diritto al nome e il diritto al marchio.
Per rispondere a questa domanda, è necessario premettere che il nome di un individuo, secondo gli artt. 6 e ss. del codice civile, costituisce un diritto soggettivo della personalità, immutabile e, quindi, oggetto della massima tutela giuridica, in ambito civile.
Tuttavia, il principio d’immutabilità del nome incontra un limite che modifica la sua natura di diritto personalissimo, qualora esso venga utilizzato nell’ambito commerciale, soprattutto come marchio per l’identificazione e la valorizzazione dei prodotti e/o servizi dell’impresa.
In particolare, secondo la Corte di Cassazione, il nome patronimico, quando viene utilizzato “in funzione di marchio, per contraddistinguere i prodotti di una determinata azienda, acquista una propria entità del tutto indipendente dalla persona fisica cui il nome appartiene.
Pertanto, è possibile la formazione, sul nome di cui sopra, di diritti di altra natura collegati unicamente all’azienda, senza che con questo resti menomata la funzione del nome civile, con i diritti imprescrittibili ed inalienabili che a tale funzione e alla natura del nome civile stesso esclusivamente si riconnettono” (Cass. civ., sent. n. 1903 del 18.06.1955).
La prevalenza del marchio patronimico in ambito commerciale
Quindi, secondo la Suprema Corte, è necessario mantenere distinte tra loro la tutela del nome prevista in ambito civile (come diritto della personalità), con quella prevista nell’ambito commerciale (come segno distintivo). Vi è una rigida distinzione tra ruolo “identificativo” del nome civile e ruolo “distintivo” dello stesso, quando questo venga utilizzato in un contesto imprenditoriale.
Ne deriva che la prima forma di tutela (civilistica) viene necessariamente derogata dalla seconda (commerciale), divenendo prevalente la tutela del “nome-marchio”, rispetto a quella del “nome-civile”, qualora il nome venga utilizzato come segno distintivo in ambito commerciale.
In un caso specifico, sempre la Corte di Cassazione, nel 2016, ha affermato che un segno distintivo costituito da un nome anagrafico (nella specie, “Love Therapy by Elio Fiorucci”) non potesse essere adottato come marchio da un’altra persona che legittimamente portava il nome Elio Fiorucci, in quanto il diritto al nome trova una “compressione” nell’ambito dell’attività economica e commerciale (Cass. civ., sent. n 10826 del 25.05.2016).
L’anno seguente, la Corte ha ribadito lo stesso principio di diritto, affermando che l’uso del proprio nome anagrafico, che pregiudichi il valore di un marchio già registrato, contrasta con i principi della correttezza professionale, poiché contenente lo stesso patronimico. In tal modo, infatti, si trarrebbe indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà (Cass. civ., sent. n. 12995 del 24.05.2017).